Quel che affidiamo ai social
Memoria, assenza e relazioni nell’epoca dei Social e dell’Intelligenza Artificiale
Esiste un posto, in Giappone, vicino a una delle città più colpite dallo tsunami del 2011, dove un uomo ha installato una cabina telefonica, nel giardino di casa sua, con un vecchio telefono nero, non collegato, attraverso il quale “parlare” con persone che non ci sono più. Un luogo in cui si recano ogni anno migliaia di persone per alzare quella cornetta e lasciare messaggi che nessuno ascolterà mai. Un posto magico, quasi avvolto dai rami di un ciliegio, che ha ispirato il bel romanzo di Laura Imai Messina “Quel che affidiamo al vento”, che ci fa riflettere sul bisogno umano di spazi simbolici in cui comunicare per mantenere il legame con le persone che sono distanti da noi per motivi diversi.
La storia della cabina telefonica bianca, situata su una collina battuta dal vento, offre uno spunto di riflessione su come, oggi, tali luoghi simbolici siano spesso sostituiti dai social network. Su queste piattaforme, fioriscono post commemorativi, messaggi e lettere: tentativi di dialogo con persone con le quali persiste un legame profondo. Giovanni Ziccardi, nel suo libro "Il libro digitale dei morti", già diversi anni fa, aveva parlato dei profili commemorativi ai quali, oggi, si affiancano app o servizi digitali specifici, anche basati sull'intelligenza artificiale generativa, che consentono agli utenti di interagire con persone che non ci sono più. Con tanto, quindi, di comunicazione bidirezionale, di relazione, dove si perde completamente la magia di quel vento al quale si affida un messaggio, per sostituirlo con un testo velocemente generato da una macchina sulla base di algoritmi statistici. Un settore emergente, questo, che sembra rappresentare un mercato significativo stimato da alcuni in oltre 300 miliardi di dollari all'anno.
Se la cabina giapponese ci invita al silenzio, all’intimità di un gesto simbolico non destinato a una risposta, i social sembrano suggerirci il contrario: esternare, condividere, aspettarsi interazioni, like, reazioni. Eppure, entrambi nascono da un bisogno profondo: non spezzare il filo che ci lega alle persone alle quali teniamo.
Se ci pensiamo bene, il telefono nero senza fili dei nostri profili social non è soltanto usato per comunicare con un “aldilà” che si trasferisce nei nostri attuali luoghi virtuali, ma anche per lasciare che il vento direzionato dagli algoritmi social possa consegnare quel messaggio proprio alla persona alla quale vorremmo scrivere senza trovare il coraggio di farlo. Quante volte ci è capitato di sfogare la nostra rabbia scrivendo una frase sui social senza taggare i diretti interessati, ma facendo riferimento proprio a un episodio specifico che lascia poco spazio alla interpretazione? E a chi non è capitato, al contrario, di ricevere un messaggio da parte di qualche persona che ci segue che, leggendo uno sfogo, ritiene di doversi scusare? Quando e dove abbiamo perso il piacere di confrontarci direttamente, di privilegiare la relazione all’invio unilaterale di messaggi che il vento potrebbe non consegnare? Sarà colpa del digitale anche questo. O forse no.
Di sicuro, il libro ci ricorda che esistono parole che non hanno bisogno di risposta, né di commenti o di like. Ma solo di un po’ di vento.
L' invito a lasciare un commento è come mettere un messaggio in bottiglia, farti vivere più a lungo in un mondo che non conosci o darti l'illusione di un momento di luce. Non frequento nessun social , preferisco parlare con qualcuno che mi ascolti e mi contraddica. Questa frenesia di immersione nella palude sociale ci distruggerà .
Leggendo questo post, mi ha colpito quanto il gesto intimo della “cabina del vento” giapponese si sia trasformato, nel digitale, in un nuovo modo di elaborare e mantenere le relazioni.
Ne abbiamo parlato anche nel nostro ultimo approfondimento, perché diventa sempre più cruciale chiederci: chi controlla questi spazi? Chi decide quali messaggi meritano visibilità?
Bellissimo spunto, grazie per averlo condiviso.