Negoziare applicando il "Pan per focaccia"
Quando la saggezza popolare è confermata dalla ricerca manageriale
Questo testo è estratto da un mio saggio, Alla ricerca del buon management. Mi piace ricordarlo visto che in questo periodo si parla molto di negoziati e negoziazioni. È un modo di comportarsi che cerco sempre di applicare nel mio vivere quotidiano.
Che si tratti di interazioni professionali, politiche o istituzionali, non è facile gestire i rapporti umani perché non è facile avere una chiara comprensione di ciò che pensa e intende fare chi ci sta di fronte. Tecnicamente, ogni interazione nella quale siamo coinvolti è una negoziazione, nella quale cerchiamo di trovare un punto d’incontro con il nostro interlocutore. È così per esempio in una interazione professionale, quando dobbiamo stabilire i termini di un accordo commerciale. Lo è in una negoziazione politica o istituzionale, in quella sindacale o anche in quella legale, quando dobbiamo definire i termini di una conciliazione. La nostra vita è piena di negoziazioni, più o meno esplicite, nelle quali è difficile capire quanto ci si possa fidare dell’interlocutore, se abbia senso o meno continuare a mostrare apertura oppure se è più saggio troncare l’interazione o assumere una posizione molto più rigida. Alcuni si affidano al proprio intuito, al sesto senso che ci dice se e come procedere. Altri più spregiudicati non si pongono problemi e mirano sempre al massimo risultato, indipendente dalle macerie umane e professionali che si lasciano alle spalle. Come ha senso procedere per non apparire sprovveduti o, per l’appunto, spregiudicati?
Ogni negoziazione può essere ricondotta a due semplici comportamenti: apertura e chiusura ad una certa soluzione o allo sviluppo dell’interlocuzione in sé. In alcuni casi, apertura e chiusura possono anche essere riletti in termini di buona o cattiva fede. In ogni caso, ogni negoziazione prevede che ci siano due casi paradigmatici: la disponibilità a venirsi incontro, a ricercare un punto ragionevole di compromesso, oppure l’indisponibilità o persino il tentativo di imbrogliare l’altro e di contrastare la ricerca di una soluzione condivisa. In poche parole, si può decidere di cooperare o di non cooperare.
Durante un corso alla Sloan School of Management dell’MIT, il docente ci invitò a svolgere un semplice esercizio di negoziazione nella ricerca di un accordo commerciale. Ciascuno di noi doveva presentare delle offerte in una sorta di asta ad un altro partecipante al corso. L’esercizio era congegnato in modo da dare la possibilità a ciascuno dei due di agire in modo cooperativo o non cooperativo. Nel primo caso entrambi ottenevano un ugual guadagno; nel secondo caso, uno dei due poteva cercare di ottenere un guadagno maggiore a scapito dell’altro. In altri termini, era possibile imbrogliare l’interlocutore. Ovviamente, se tutti e due avessero cercato di imbrogliare l’altro, entrambi avrebbero perso. Era dunque interesse comune cercare di trovare un accordo anche se questo non avrebbe garantito il massimo guadagno che era possibile sulla carta: se avessimo solo cercato di imbrogliare l’altro avremmo perso tutto entrambi.
L’esercizio era articolato in una serie di dieci interazioni durante le quali ciascuno poteva giocare in modo da far guadagnare una stessa cifra a tutti e due oppure cercare il “colpo grosso” e imbrogliare l’altro. Da ingenuo, io cercai per le prime interazioni di proporre in modo coerente sempre la prima opzione e venni regolarmente imbrogliato dal mio interlocutore. Ero stato uno sprovveduto e avevo insistito nel mio atteggiamento positivo e in buona fede anche quando l’altro aveva dimostrato di pensare solo a se stesso per ricercare il massimo guadagno possibile. D’altro canto, se avessimo sempre cercato di imbrogliare l’altro, nessuno avrebbe mai guadagnato alcunché. Che fare quindi?
Il docente ci spiegò che esistono diverse teorie e approcci secondo i quali gestire questa interazione, questa negoziazione. In particolare, Anatol Rapoport aveva sviluppato una strategia che in un famoso esperimento organizzato da Robert Axelrod si era dimostrata essere la migliore tra tutte quelle esaminate: tit for tat1. Dal punto di vista della teoria dei giochi, è una strategia per affrontare il dilemma del prigioniero, espressione utilizzata nelle discipline manageriali per identificare questo tipo di casistiche.
La strategia del “tit for tat“ prevede che la persona si comporti secondo il seguente schema:
All’inizio dell’interazione, la persona dimostra apertura e collaborazione.
Se provocato con una risposta negativa, alla successiva interazione la persona assume lo stesso atteggiamento di chiusura dimostrato dal suo interlocutore.
La persona è però pronta a “perdonare” e a tornare alla collaborazione non appena rileva la stessa volontà da parte dell’interlocutore.
Se l’interazione prosegue in modo positivo, ad ogni interazione il valore della collaborazione aumenta.
È l’equivalente di ciò che i nostri saggi hanno sempre chiamato “pan per focaccia”.
Esistono critiche a questo approccio e sono state conseguentemente sviluppate sue varianti e alternative, ma in questa sede è utile sottolineare come già questa versione molto semplice può essere molto utile per gestire in modo aperto e disponibile l’interazione con un interlocutore e, soprattutto, per illustrare ed esemplificare un atteggiamento di fondo, una postura culturale e comportamentale. È un approccio positivo che assume buona fede e apertura, ma che è pronto a ricredersi nel momento in cui ciò si verifichi non essere vero. È anche un atteggiamento molto umano, naturale, sano. Scrive Malcolm Gladwell ne Il dilemma dello sconosciuto:
Ma la presunzione di onestà non è un crimine. È una tendenza intrinsecamente umana.
E ancora:
Presumiamo che gli altri siano sinceri, anche quando questa decisione comporta dei rischi tremendi, perché non abbiamo altra scelta. Altrimenti la società non potrebbe funzionare. E nei rari casi in cui questa fiducia viene tradita, chi subisce le conseguenze di quella presunzione di onestà iniziale merita tutta la nostra solidarietà, non la nostra condanna.
La posizione di Gladwell potrebbe apparire fin sconsiderata, ma se mediata con strategie come “tit for tat” permette di contemperare a due diverse esigenze: la disponibilità all’apertura e alla collaborazione con una ragionevole gestione dei comportamenti negativi che emergessero nei nostri interlocutori.
Pur avendo un carattere impulsivo, col tempo sto imparando ad usare la strategia “tit for tat”, non solo nelle attività professionali, ma anche nelle interazioni sociali, nella vita reale, sui social network, dove è peraltro veramente difficile trovare un giusto equilibrio tra la disponibilità al dialogo e il bisogno di evitare e chiudere interazioni tossiche e sterili. In ogni caso, è indubbio che sia necessario sviluppare una disciplina nella gestione delle relazioni, intesa nel senso orientale del termine, cioè una capacità di autocontrollo che miri a stabilire un rapporto costruttivo, ad estrarre e ricercare elementi positivi anche quando sembra che non ci sia una volontà di apertura e collaborazione.
1 https://it.wikipedia.org/wiki/Tit_for_tat
Molto interessante …. E’ necessario avere capacità di autocontrollo che miri a stabilire un rapporto costruttivo, ad estrarre e ricercare elementi positivi anche quando sembra che non ci sia una volontà di apertura e collaborazione….